Seconda Conferenza: testo integrale

 

PIANETA COOPERAZIONE: UNA RISORSA PER CHI?

27 aprile 2006

Relatore: Jean Leonard Touadi

Interventi: Giorgio Fornoni, Padre Fulgenzio Cortesi, Dott.sa Gloria Facchinetti

Dott.sa Gloria Facchinetti: ”L’associazione onlus Harambee, per quelli di voi che non la conoscessero bene, è un’associazione nata quasi sette anni fa quando Padre Fulgenzio ha deciso di lasciare Bergamo e trasferirsi a Dar Es Saalam in Tanzania. Siccome non ci sembrava bello lasciare a metà il lavoro che avevamo iniziato insieme abbiamo deciso, noi ragazzi che lavoravamo con lui, di fondare quest’associazione e proseguire con il lavoro che avevamo iniziato. Noi gestiamo soprattutto dei sostegni a distanza e realizziamo dei piccoli progetti. Quello che noi facciamo lo facciamo per scelta nel senso che vogliamo rimanere piccoli perché siamo dell’idea che le strutture si muovono più agilmente, più velocemente e forse vanno incontro meglio ai bisogni della gente. Per vedere se la nostra è una formula che puo’ funzionare stasera sentiremo cosa ne pensa Jean-Léonard. L’anno scorso abbiamo iniziato con la prima conferenza sul bambino africano dagli orfani ai bambini che vengono reclutati per fare la guerra e ci eravamo lasciati sempre con Jean-Léonard e con Giorgio Fornoni parlando di questi bambini con una prospettiva di come noi occidentali saremmo potuti intervenire riguardo a quello di cui avevamo parlato quindi la posizione di questi bambini, il perché sono costretti a fare la guerra e tutto quello che ci sta dietro. Quindi abbiamo pensato che giusta conseguenza di quello che avevamo iniziato l’anno scorso fosse fare un punto un attimino sulla cooperazione, quindi sia sul nostro modo di lavorare che sul modo di lavorare di organizzazioni più grosse della nostra. Abbiamo ancora la fortuna di poter avere di nuovo con noi Jean-Léonard Touadi e Giorgio Forconi e naturalmente Padre Fulgenzio perché è appena rientrato da Dar Es Saalam. Per cui adesso lascio la parola a loro, a Padre Fulgenzio che vi presenterà i due relatori.”

Padre Fulgenzio Cortesi: ”È veramente una gioia profonda trovarmi ancora qui con questi due amici di vecchia data con i quali con entusiasmo e determinazione si sono condivisi aspirazioni. Sarà soprattutto Léonard Touadi a entrare nel vivo del discorso e a commentarlo con le foto e le immagini sapete il nostro report Giorgio Fornoni ormai conosciuto attraverso la tv in tutto il mondo, dico bene? Io accenno solo a dissegnare una cornice del tema, faccio la cornice, il quadro, il tema lo presenterà l’amico Léonard. Pianeta cooperazione, un titolo solenne. Pianeta che rischia magari il fallimento nonostante le buone volontà iniziali, infatti, come chiamare diversamente questo fallimento collettivo di un continente Africa e America Latina che dal nord al sud traboccano di ricchezze inestimabili? Questa nazioni non povere, ma impoverite da chi poi ostenta cooperazione cercando vantaggio e dominio, travisando parole e concetti di collaborazione, cooperazione, solidarietà ed assistenza. Che l’aiuto sia necessario allo sviluppo dei paesi impoveriti e derubati nessuno oggi sembra contestarlo. Tuttavia troppe voci si alzano a denunciare i grandi aiuti che perpetuano dipendenza, l’aiuto che mantiene burocrazie e arricchisce così sia i dirigenti locali che i loro fornitori stranieri servendo da alibi ad ogni tipo di pratiche di arricchimento illegale. C’è l’aiuto che uccide e c’è l’aiuto che crea vita. Se si ammette che l’aiuto è necessario non è ugualmente importante che i popoli del Sud del mondo si interroghino anche sul tipo di aiuto di cui hanno bisogno, sulla destinazione e l’utilizzo finale? L’aiuto estero è necessario se esso partecipa all’idea della condivisione dello sviluppo e se è distribuito tenendo conto degli elementi essenziali della cultura di quelli che lo ricevono, del loro livello di educazione e del grado di libertà di cui godono per poterne trarre il massimo profitto. Un aiuto distribuito non considerando le aspirazioni della popolazione o della organizzazione sociale ed economica della società tenderà inevitabilmente ad aggravare le disuguaglianze se non perpetuerà molto semplicemente la dipendenza. Le strategie di progetti nazionali ed internazionali di sviluppo che privilegiano sistematicamente i criteri finanziari ed economici si scontrano spesso con l’indifferenza di popolazioni interessate e da parte loro succedono sempre più reazioni di rigetto. Nessuna strategia di sviluppo puo’, senza rischio di fallire, annullare le caratteristiche essenziali dell’ambiente naturale e culturale nei bisogni, le aspirazioni e i valori degli interessati. La partecipazione attiva della popolazione è considerata non più semplicemente come auspicabile ma come condizione necessaria per la riuscita delle strategie di sviluppo. Senza osare di pensare che l’aiuto imprigiona quelli che accettano le sue catene dorate nel ciclo infernale di una dipendenza crescente sembra opportuno anche interrogarci sulla necessità di aiuti che sembra non apportare delle soluzioni alle povertà emergenti e sempre crescenti. Ma forse ci si potrebbe interrogare anche sulla capacità dei Paesi africani e latino-americani di svilupparsi senza di esso o chiederci molto semplicemente se lo sviluppo del Sud del mondo avrebbe potuto essere diverso senza gli aiuti internazionali. E permettete per finire una mia ultima riflessione; e qui sull’Africa in particolare. L’Africa per secoli è stata derubata non tanto e solo delle sue ricchezze dal suo avorio, dal suo oro, dai suoi diamanti e materie prime ma è stata soprattutto derubata per secoli della sua antropologia, si è rubato l’uomo in Africa. Vivo da anni in Tanzania, a Dar Es Saalam al villaggio della gioia che sto costruendo e mi trovo a 40 Km da Zanzibar e a 40 Km da Bagamayo che vuol dire “lascia qui il tuo cuore rotto” detto per cinquecento anni dagli schiavi che li venivano raccolti per poi essere inviati a Zanzibar e nelle Indie. E di fronte a Dakar, in Senegal, vi è Gorè: due luoghi che ricordano secoli di schiavitù, secoli di sistematico, legale, riconosciuto genocidio. I lunghi secoli della schiavitù nei quali si è rubato all’Africa l’antropologia migliore: i suoi giovani, le sue fanciulle, i suoi uomini. Si è rubato, deportato e messo in catene l’uomo: ora necessario restituire l’uomo all’Africa anche attraverso la cooperazione se vogliamo, dando ad essa finalità educative e ri-creative. Oggi più che mai bisogna vedere nell’educazione una dimensione fondamentale di ogni progetto sociale, culturale, economico. Educazione: è ad essa che è affidato i pesante compito di formare le donne, le mamme e gli uomini a una cultura di progresso e di civiltà e alla democrazia. È essa che rende i cittadini capaci di comprendere e di assumere le funzioni che competono loro nella società. È attraverso l’educazione che si impara ad essere. Tante e troppe sfide oggi attanagliano l’Africa, ma quella dell’educazione costituisce la vera sfida per l’Africa, perché è con donne, mamme e uomini formati che si costruisce durevolmente lo sviluppo e che si raccolgono le molteplici sfide presenti e future. L’educazione, la cultura è la condizione fondamentale che permette di assicurare lo sviluppo d una nazione. Che davvero la cooperazione si indirizzi verso questa realtà primaria e fondamentale. Comunque adesso entriamo nel cuore di questa serata, nel vivo di questo “pianeta cooperazione: una risorsa per chi?” e certamente Jean-Léonard Touadi, con la sua capacità di approfondimento, di cultura. È veramente gioia grande avere qui un personaggio, forse uno dei più noti attualmente scrittori e opinionisti africani. Attualmente insegna anche all’università di Milano, oltre che aver diretto “mondi a colori” per tanti anni alla televisione italiana.”

Jean-Léonard Touadi : »Metto gli occhiali e guardo l’orologio… ringrazio e saluto tutti: ringrazio gli amici e le amiche dell’associazione Harambee che mi hanno invitato per la seconda volta in questa bellissima città di Bergamo e ringrazio voi di essere qui presenti di aver disdegnato i programmi di rai e mediaset per stare qui stasera insieme a noi. Un grazie soprattutto per la presenza in questo incontro di Giorgio Fornoni e davvero l’ho preso in giro per tutta questa serata, questa volta sono serio. Sono molto contento, lui rappresenta per tutti noi giornalisti che tentiamo di raccontare il Sud del mondo, tutti noi che tentiamo di raccontare la geografia della miseria e tentiamo di raccontare questa globalizzazione impazzita. Abbiamo nei suoi reportage, nella sua sensibilità, nella sua capacità professionale di penetrare dove di solitole telecamere non arrivano, non giungono e lui rappresenta davvero un punto di riferimento, proprio di professionalità e di sensibilità e anche di impegno civile. Ecco lo voglio dire perché anche l’impegno civile conta: uno puo’ avere tutta la professionalità di questo mondo, tutta la sensibilità ma se gli manca l’impegno civile…forse vorrei anche dire l’impegno politico, un’idea di politica troppo, come dire, deformata dalle cose che vediamo da Paolo Floris o da Bruno Vespa, e forse pensiamo che la politica è questa. La politica è dare risposta, dare risposte ai problemi della polis, e la polis oggi, la città, si è talmente allargata, si è talmente dilatata che ha abbracciato i confini stessi del mondo. Noi siamo la prima generazione da quando i nostri antenati lasciarono l’Africa nel Neolitico, si distaccarono dalla condizione di scimmie antropomorfe per diventare homo sapiens-sapiens. Questo processo si è svolto in Africa, tutti noi siamo stati generati dall’Africa, bisogna ricordarlo a qualcuno questa semplice verità storica. Quindi da quel tempo, forse mai come in questo periodo, la nostra generazione si trova a dover vivere questa doppia appartenenza alla dimensione locale, cioè tutti noi siamo radicati nel paesino dove viviamo, nei quartieri dove viviamo, nella città dove viviamo e forse passeremo il resto dei nostri anni dentro questo piccolo territorio, ma sempre di più questo piccolo territorio fa parte di una realtà più grande che è il mondo, che è il pianeta intero. E allora bisogna cominciare ad abituarsi a pensare in modo globale. Bisogna aggiungere accanto alle tre “i” che qualcuno dice di aver insegnato nelle scuole:”impresa, informatica e inglese”, bisogna aggiungere la “i” di intercultura. La “i” di intercultura è quella “i” che ci insegna a dilatare l’orizzonte della nostra mente e del nostro cuore, ad avere un’attenzione alle cose del mondo, quindi informarci, documentarci, spalancare le orecchie e quest’attenzione non è semplice curiosità tanto per godere dei mali degli altri o per guardare dal buco della serratura quello che gli altri fanno. Quest’attenzione deve diventare una tensione etica, una tensione operativa, una tensione creativa per creare ponti, ponti di giustizia, ponti di dialogo, di passione, di amore e anche di pace. Ecco che oggi parlando di cooperazione noi stiamo toccando davvero con mano quella che è la sfida, la sfida che ci aspetta, aspetta tutti noi come specie umana, aspetta voi italiani, aspetta gli africani, aspetta gli americani. Siamo in un momento della storia dove a quanto pare siamo di fronte ad un bivio, e questo bivio non ci lascia una terza possibilità. Questo bivio ci dice: o combattere o cooperare, e non abbiamo una terza possibilità. O combattiamo o abbracciamole logiche della contrapposizione, la logica che descriveva un maestro del pensiero occidentale, quindi parlando a degli europei lo posso dire, questo tale Hobbes che diceva “homo hominis lupus” il mondo prepolitico, il mondo disorganizzato, il mondo disintegrato è un mondo dove l’uomo è lupo per l’altro uomo. Il più forte vince, si pappa il più debole, ma anche quel più forte è minacciato perché troverà sempre uno più forte di lui che se lo pappa. Quindi abbiamo questa possibilità: o entriamo in questa logica della contrapposizione frontale, che non è solo una contrapposizione culturale, religiosa, ma è una contrapposizione che ha una matrice soprattutto economica, perché la cifra essenziale di questa globalizzazione è la cifra economica. Cioè l’espansione di grandi interessi che toccano tutti gli angoli del mondo. Quindi se noi scegliamo, ma non domani, già da questa sera, in questi minuti dobbiamo fare mente locale per sapere da che parte vogliamo stare. Se scegliamo la logica della contrapposizione, del combattimento, dalla lotta, del classes of civilization dello scontro di civiltà allora ne deduciamo alcune conseguenze. Ma se invece, come pare di aver capito, di aver sentito, c’è anche qui, tra noi, un francescano, quindi ho il sospetto che avete scelto la seconda strada della cooperazione, cioè la strada del governo politico, dei grandi problemi, delle grandi sfide che l’umanità si trova ad affrontare, allora dobbiamo esplorare insieme il modo per poterlo fare. Quindi mi dovete dire se avete scelto la prima strada, la conferenza è finita, io mi alzo e me ne vado…continuo? Bene, bene quindi siamo nella strada della cooperazione. Però non basta dire cooperare, avete scelto una strada molto impegnativa, molto difficile, molto complessa, perché come vedete la strada della contrapposizione è facile: bianco e nero, gatto e cane, Bergamo alta e Bergamo bassa, Bergamo e Milano, inter e milan, roma e lazio, guelfi e ghibellini, comunisti e non comunisti, ecc..È una strada molto chiara, è piena di certezze dove il nemico è visibile e gli amici si conoscono. La strada della cooperazione è più complessa.Ci consegna un mondo più articolato, disgregato e polarizzato tra ricchi e poveri ecc..È un mondo caotico quindi se scegliete la strada della cooperazione voi rendetevi conto che partite da una situazione di grande caos. Ma il caos non ci deve fare paura, il caos non ci deve spaventare, il caos è preludio di un cosmos possibile, puo’ darsi, caos vuol dire rimescolamento, rimettere le carte in gioco, sparigliare il tutto, caos ha la stessa radice qui, mi inoltro in terreni molto impervi, di crisi. Ecco viviamo un momento di crisi. La crisi viene da crimen, il momento del giudizio, del discernimento, della scelta. Quindi viviamo dei momenti molto belli dove davvero nel caos apparente noi intravediamo la possibilità di costruire un ordine, un cosmos. Un cosmos più giusto, un cosmos più ecologico, un cosmos più pacifico. Siamo di fronte davvero ad un’impresa titanica e che è anche esaltante quella della cooperazione; è molto bella. Cooperazione significa, intanto, la parola lo dice, operare insieme, cum operare, significa quindi il riconoscimento della diversità, della diversità mia, della diversità dell’altro. La cooperazione ci spinge a riconoscere l’alterità dell’altro, la mia identità ma anche l’alterità dell’altro, senza mai saltare questo passaggio. È importante: l’altro è ciò che è, l’altro, come lo diceva un grande maestro del nostro tempo, Emmanuel Levinas, l’altro è epifania, io lo vedo, lo tocco. Oggi è facile toccare l’altro: con la globalizzazione, i viaggi che diventano facili, internet, la televisione. L’altro si manifesta a noi, è epifania, lo possiamo vedere, lo possiamo toccare. Ma l’altro, ci dice anche questo maestro, l’altro è anche un mistero, cioè un qualche cosa che io non posso mai piegare alle mie logiche e categorie. Qualche cosa che io non posso mai ridurre ad una definizione semplice: l’Africa è povera, gli africani sono poveri, gli asiatici ecc..l’altro è un mistero, dice Levinas, che mi provoca continuamente.Mi provoca, mi chiede di andare in avanti, mi chiede di lasciare le mie certezze, mi chiede di lasciare la mia polarità identitaria per andare alla scoperta di questa diversità che mi fa un po’ paura ma che mi affascina e che mi attrae in qualche modo. Questa è la cornice dentro la quale noi dobbiamo vivere la cooperazione, non come un dovere, una cosa triste, la cooperazione ci apre delle praterie bellissime, le praterie dell’incontro con l’altro, dell’epifania dell’altro, e del mistero dell’altro; gli altri continenti, le altre realtà economiche, e così via dicendo. Una volta tracciata questa cornice, dove diciamo cooperazione prima di tutto è incontro tra la diversità, valorizzazione tra diversità; noi esploriamo con la cooperazione la possibilità di uno scambio, di un dono, vediamo se possiamo scambiarci qualche cosa. Ma per poter allora farlo io devo essere me stesso e quindi qui a me interessa molto tutto il discorso che si fa sull’identità italiana perché altrimenti, se gli italiani non hanno identità che cosa vanno a fare all’incontro con gli altri, quindi devono avere la loro identità, e su questo se volete ne possiamo parlare; quanto è importante nella cooperazione non dare o fare solamente ma anche essere, giocarsi la relazione, giocarsi l’essere, ciò che sì profondamente, non è solo un dare e un fare. So che qui sono nel cuore produttivo d’Italia, quindi il fare costituisce qualche cosa di assolutamente, un imperativo categorico, però nell’incontro con l’altro forse il fare non è la prima cosa; e nemmeno forse il dare, forse è l’incontro, il camminare insieme. E allora il fare e il dare nasce da questo camminare insieme, da questa conoscenza reciproca che cresce, che matura, un po’ come i discepoli di Emmaus che incontrano quello straniero, che faceva finta di non sapere le cose che erano successe a Gerusalemme, gli altri si insospettiscono, si indispettiscono, però fanno un pezzo di strada insieme, incontrano il momento del conflitto, perché l’incontro con l’altro conflitto, e l’incontro con l’Africa è fonte di tanti conflitti, perché gli africani sono diversi, sono completamente diversi, per cultura, per condizione sociale ed economica, ma quale gioia quando si riesce a superare questo ostacolo del conflitto per arrivare alla condivisione del pane. È il momento in cui ci si riconosce, è il momento della condivisione del pane. Ma la condivisione del pane viene dopo che ci si è conosciuti, che ci si è stimati, che si sono spianate le incomprensioni, è un momento secondo non un momento primario la condivisione del pane. Quindi la cooperazione essenzialmente è questo: è incontro tra popoli e incontro tra culture, incontro tra persone che si giocano in questo incontro la loro doppia polarità identitaria, le loro diversità, che diventano ricchezza. Tutto il resto, il dare, il fare, i soldi, costruire un ospedale ecc, diventa un qualche cosa di secondario, nasce dall’incontro, cioè è l’esigenza dell’incontro che diventa fecondo a tal punto da determinare un progetto, un ospedale, una scuola; ma come frutto maturo di una relazione e non il contrario. Il contrario somiglierebbe a questo punto alla politica, alla filosofia degli aiuti. Per cui il progetto, l’ospedale, diventano progetti al servizio della relazione e dell’incontro. Noi entriamo in una strada faticosa dove non basta più digitare un sms e mandare dei soldi a dei poveracci e sentirsi la coscienza a posto, non basta acclamare Raffaella Carrà al programma indecente, dal mio punto di vista, di autore televisivo prima che ancora di giornalista e di africano, poi se qualcuno vuole sapere il perché glielo spiego a parte, non è questo il tema; però l’importanza di considerare l’altro non come un terminale che riceve il nostro aiuto ma come una persona con cui spezziamo il pane dopo che abbiamo imparato a camminare, a conoscerci, a condividere, a stimare, a stabilire quella reciprocità, quel riconoscimento; altrimenti noi entriamo in quella logica di quello che un vecchio saggio africano, noi africani siamo come il vino, man a mano che invecchiamo diventiamo migliori, altro che vecchi e rincoglioniti, questa espressione che a me turba sempre di considerare gli anziani come vecchi e rincoglioniti un po’ così, da noi è il contrario; qualcuno diceva un anziano che muore in Africa è come una biblioteca che brucia, l’anziano come depositario singolo individuale della memoria, della saggezza. Chi di voi ha visto Kiriku e la strega Karaba sa che quando in quel villaggio le cose vanno male, non trovano l’acqua, non trovano modo di liberarsi dalle insidie della strega Karaba che rappresenta la globalizzazione, che rappresenta il miraggio della modernità, qual è il ricorso di questo villaggio? Il ricorso ultimo, la chiave per trovare la soluzione è di andare dal saggio, dal vecchio saggio che svela a Kiriku il mistero per tornare a rendere felice il villaggio. E quindi questo vecchio africano che è Joseph Ki zerbo, dall’alto dei suoi ottantaquattro anni dice sempre a propositi di aiuti e di cooperazione: “Attenzione, la mano che riceve sta sempre sotto la man che da”, la mano che riceve sta sempre sotto la mano che da, e quindi un Africa che per tanto tempo abituata a tendere la mano ha stabilito, nonostante la volontà de singoli cooperanti e dei singoli missionari, ha finito lo stabilire con l’Europa un rapporto asimmetrico, non è un rapporto da pari a pari, perché colui che riceve sta sotto e colui che da sta sopra ed è consapevole di avere dalla sua parte, anche nel bene, anche con le migliori intenzioni, anche con la migliore buona volontà, ma la strada dell’inferno è lastricata di persone che avevano buone volontà, quindi la buona volontà da sola non basta. Stiamo maturando che quella strada dell’aiuto asimmetrico, dell’aiuto verticale, ha creato dipendenza come lo diceva prima Padre Fulgenzio, ha creato mentalità di assistenzialismo, non è stato in grado di risolvere il problema anzi lo ha peggiorato perché non ha permesso alle comunità di rimettersi in moto. Sapete, si parla molto di Aids in Africa, che è un male incredibile, che va in Malawi lo sa, chi va in Zambia lo sa, chi vive in Tanzania lo sa, ma non è solo il singolo malato d Aids, cioè l’Aids è la metafora di tutto il continente che non ha più le proprie difese immunitarie. L’Africa è un continente le cui difese immunitarie sono completamente disinnescate, l’africa non è più stata in grado di dare risposte, degli anticorpi ai suoi problemi. Allora un continente che sta in questo modo non può più continuare a ricevere sol aiuti a pioggia, che crea assistenzialismo, che crea la mentalità di assistito, l’Africa ha bisogno che qualcuno l’aiuti a ritrovare le proprie difese immunitarie. L’azione di cooperazione, il vero aiuto che si può dare oggi all’Africa è di permettere al su corpo sociale, al suo corpo culturale, al suo corpo politico di rimettersi in moto. La parola che l’Africa si sente di poter ascoltare in questo momento è “Africa alzati e cammina” da noi si dice telemà, telemà, telemà, alzati e cammina. Africa alzati e cammina. Se vuoi in un primo momento ti do la mano per rialzarti perché sei troppo indebolito, perché non mangi da tanto tempo, perché hai sete, perché le tue membra non sono più abituate a camminare, io ti do la prima mano per rialzarti, quegli amici un po’ come ha fatto il Signore che nella folla che lo circondava è stato in grado di intravedere il Zaccheo sull’albero, si sentiva piccolo, si sentiva indegno, si sentiva peccatore, beh il Signore ha avuto quel coraggio profetico di dire africa, Zaccheo io stasera vengo a casa tua, a cena, da te, a casa tua, ti restituisco la tua dignità di uomo, di uomo che puo’ interloquire con altri uomini, io vengo da te e da quel momento la vita di Zaccheo è cambiata. Fare cooperazione oggi è chiamare l’Africa a scendere da quest’albero, a scrollarsi di dosso questo sentimento della sua piccolezza e della sua indegnità, questo sentimento che l’Africa ha coltivato in questi secoli di interiorizzare la sua indegnità, perché questo è successo, nell’anima profonda del nostro popolo; ha interiorizzato la sua inferiorità, e bene fare cooperazione oggi significa dire a quest’Africa: ”Africa alzati e cammina”, ti do la prima mano ma gli altri passi vorrei vederti farli fare da sola. Se riusciamo a fare questo, se entriamo in questo spirito, poi possiamo indagare sugli strumenti più idonei per fare questo; l’aiuto, la cooperazione decentrata, non decentrata, i container piuttosto che questo, ma quello che deve cambiare è la mentalità, è l’approccio, è il modo di vedere l’Africa. Comincia a darmi un immenso fastidio quest’idea di un Africa povera; l’Africa non è povera a parte la prima parte che ha detto Padre Fulgenzio: l’Africa è impoverita, noi possiamo passare una notte intera per capire tutti i meccanismi organici, strutturali, quelli che Giovanni Paolo Secondo chiamava le strutture di peccato e quelle cose per le quali Paolo Sesto nel popolorum progressum, che non era notoriamente un militante di rifondazione comunista, Paolo Sesto diceva se noi non dovessimo fare queste cose la collera dei popoli ci seppellirà; nel 1967, la collera dei popoli ci seppellirà. Quindi smettiamo di pensare che l’Africa sia un continente povero, non sono stupido nel non dire che l’Africa ha degli immensi problemi economici, sono tantissimi, conosce un estraniazione economica incredibile, le condizioni di vita delle persone da quarant’anni a questa parte sono andate peggiorando in città e nelle campagne, tutti i parametri sociali in Africa sono negativi quindi abbiamo degli immensi problemi economici ma non siamo poveri, ma non siamo poveri, perché per noi la povertà non è solo la povertà economica, la povertà del portafoglio, la povertà quantitativa; l’Africa è piena di risorse, qualcuno ha definito il continente come un serbatoio antropologico dell’umanità, mi pare Giovanni Paolo Secondo, serbatoio antropologico dell’umanità; quindi siamo ricchi, non di ricchezza materiale, di dollari e di euro, ma siamo ricchi di antropologia, ricchi d umanità, ricchi di cultura, ricchi di arte, ricchi di letteratura, allora se anche voi ridimensionate la dimensione quantitativa e vi ponete sul piano della relazione vi renderete conto che potete dare all’Africa ma che potete anche prendere molto, molto dal continente africano; allora ci poniamo su un piano di reciprocità. È uscito recentemente un libro di una collega del “le monde diplomatic” Cécile Robert “l’Africa in aiuto all’occidente” un titolo..quasi una bestemmia, ma come, come puo’ l’Africa venire in aiuto all’occidente; tutto quello che noi chiediamo, e ve lo chiediamo umilmente, è aiutateci a liberarci dal regno della necessità. È vero, siamo dentro il regno della necessità, manca il mangiare, manca il bere, manca l’alfabetizzazione di base, mancano i farmaci. Se i popoli dell’opulenza con politiche mirate, di giustizia economica, di redistribuzione dei beni ci aiutano a uscire dal regno della necessità noi saremo in grado di dare molto di più di quanto abbiamo ricevuto, molto di più, al centoplu come dicono le Sacre Scritture. E allora mi ha fatto pensare, erano cose che noi scriviamo e pensiamo da tanto tempo, andiamo dicendo in incontri come questo, però finché lo dice Serge Latouche, finché lo dice Aminata Traoré, finché lo dice Padre Zanotelli, e tutte teste calde, forse nessuno ci da peso. Ma mi ha fatto pensare nel 2005, Gennaio del 2005, e termino con questo, vi consiglio di andare a cercare il messaggio di Giovanni Paolo Secondo per la giornata mondiale della pace. È un messaggio, a parte che è quasi un testamento alla fine di un lungo pontificato, messaggio molto bello, molto denso, molto profetico anche nell’individuare i mali del pianeta e anche le soluzioni, qualcuno dice scherzando è una di quelle lettere che dimostra che ogni tanto lo Spirito Santo passa anche a Roma. In questa lettere così bella, così profetica dove Giovanni Paolo Secondo affronta i problemi del mondo, Lui ha dedicato ben due pagine all’Africa; ed è commuovente l’amore che questo pontefice aveva per il continente africano. Di ritorno da un viaggio nel Sahel, mi pare, dopo un immensa siccità che aveva ucciso uomini, animali, bestie e la visita papale accadeva proprio in quel periodo la in Mali o in Burkina Faso, tornando a Roma nell’aereo, dove Lui a un certo punto parla con i giornalisti, ha detto questa frase che ci ha raggelato tutti, perché solo i profeti dell’Antico Testamento, quelli bravi, quelli cazzuti parlavano in questo modo. Con una tale profondità dopo l’immagine che avevamo visto e quindi questo spiega il perché di questa attenzione speciale che Lui aveva per l’Africa, ebbene Lui dice una cosa che c deve far riflettere, cito a memoria, però dice questo: ”Possano i popoli africani non essere solamente destinatari degli aiuti”, cioè chiudeva una fase, la fase degli aiuti ma che diventino protagonisti. Ecco richiedeva, richiamava agli africani a un protagonismo, a un prendersi in mano, a uno smettere di guardare il cielo degli aiuti per rivolgere gli occhi alla loro terra da coltivare e da valorizzare. Un messaggio molto bello che davvero che merita di essere letto. Ebbene in questa fase storica, dove tutto sembra parlare di morte nell’Africa, il continente che era il continente della vita oggi appare ai più come il continente della morte, dove la medicina parla di morte, dove la politica parla di morte, l’economia parla di morte, l’urbanizzazione parla di morte, ebbene in quel continente la il pontefice ha detto ridiventate protagonisti, ritrovate la fonte della vita. Fare cooperazione oggi in Africa, ma anche altrove, significa proprio ridare agli altri la loro iniziativa, il loro protagonismo. E noi che facciamo? Dove andiamo? Come ci riscaldiamo il cuore? Come ci sentiamo generosi? Come possiamo fare? Voi dovete essere come quelle ostetriche, e io che ho tre figli ho frequentato le maternità in questi ultimi tempi, la gioia dell’ostetrica, se veramente ama il suo lavoro, se lo fa per passione, per vocazione, la gioia dell’ostetrica non è meno grande della gioia della mamma, perché grazie a lei i bambino nasce, perché grazie a voi la speranza nascerà in Africa e nel mondo. Grazie.

Padre Fulgenzio Cortesi: ” Touadi sei un vero maestro, grazie. Bene adesso lasciamo uno spazio, giusto, anche a Giorgio che ci proietterà le sue immagini, voi sapete che questo uomo rischia sempre la vita la dove c’è polvere e spari lui è presente: Giorgio Fornoni.

Giorgio Fornoni: ”Dico semplicemente che forse abbiamo sbagliato programma, nel senso che prima avrei dovuto far vedere il video e poi sentire Touadi che così forse saremmo andati a casa con la speranza. Se io vi faccio vedere questo video, questo pezzo, uno stralcio di un video che è un’inchiesta che ho fatto per Report, appunto sullo ong, vi farò vedere semplicemente una stralcio, dove appunto mettiamo in evidenza le contraddizioni dell’umanitario, e purtroppo dico abbiamo sbagliato, avremmo dovuto prima fare questo perché io non riesco chiaramente a parlarvi dell’essere. Dicevo giustamente il dare, il fare e l’essere, purtroppo mi fermo al materialismo ed è l’unica cosa che ho cercato di separare, di seguire in quel momento. Avevo fatto questa inchiesta dopo che stavo finendo di fare quella sui diamanti insanguinati, mi trovavo in Sierra Leone nella zona dei cercatori di diamanti nelle miniere del cono. C’erano i guerriglieri e io avevo avuto la fortuna di arrivare proprio per primo in quel momento su dal capo del Ruef, ho visto che in quella zona non c’era nessuna organizzazione umanitaria e allora sono ritornato a Freetown, che n qualche modo c’erano tutte le ong, in parte perché c’erano le spiagge, in parte perché avevano finito le ricerche i lavori e così via, dico ma per quale motivo diciamo l’aiuto è costruito in questo modo? Ecco che sto smantellando un po’, forse, però ho voluto raccogliere solo le cose che non funzionavano, infatti, da laggiù ho telefonato a Milena Marianelli e le ho detto: “Avrei intenzione di fare un inchiesta sulle ong perché se loro continuano a ricevere consensi, queste ong, sponsorizzazioni e benedizioni la cosa non puo’stare come sta attualmente”; infatti, proprio nelle zone dove c’era necessità tante volte non c’era e tante volte non c’è neanche adesso, perché noi sappiamo perfettamente che in Cecenia le organizzazioni umanitarie non ci possono andare, in Cecenia la storia è stata dura. Sono tornato dall’Iraq recentemente, un mese fa, la stessa croce rossa che si vantava di essere la per tutto, fin quando c’era una situazione politica che la sorreggeva le stava bene, diversamente anche lì non c’è niente. Oggi si è parlato di azione umanitaria, che sono successi quei fatti, lo avete sentito, e pertanto come trovo difficoltà quando recentemente Fini, no, seguendo un discorso, le promesse che aveva fatto Berlusconi ai tempi, noi arriveremo a dare come cooperazione almeno lo 0.7 % del PIL, ve lo ricordate? Quindi poi sono arrivati a non dare più niente e hanno tolto addirittura gli aiuti che davamo all’ONU, le sottoscrizioni, quindi niente più all’ONU, e oltretutto recentemente la cooperazione è gestita dal ministero degli esteri. Fini, recentemente lo ha dichiarato, non so se riusciremo a dare qualcosa. L’unico obulo distribuito recentemente è stato la promessa di ricostruire quella famosa cupola sciita che è stata, proprio successo un mese e mezzo fa. Quindi semplicemente per dare comunque visibilità a un discorso, quindi l’aiuto umanitario deve veramente essere così costruito come diceva Touadi anche perché altri esempi sono Benetton: continua per esempio a dare contributo per la sua campagna pubblicitaria, lui però l’ ha detto chiaramente, ho un tornaconto, perché facendo queste cose ho un tornaconto appunto in pubblicità. La stessa cosa di Bill Gates, è l’uomo più ricco del mondo, la donazione che lui ha fatto in India, come donazione in soldi, in aiuti umanitari, è stata la donazione più grande mai fatta da nessun uomo e da nessuna istituzione o associazione del mondo. Però lui nel frattempo, mentre dava quei fondi, lui ha buttato in India tutto il sistema di internet, di computer, e così via; quindi ecco è un mondo che veramente, come raccontare il discorso di Pavarotti and friends, quando fanno questi concerti e poi alla fine arriva niente o quasi niente. Ecco per quello che dicevo forse abbiamo sbagliato il programma, avremmo dovuto prima far vedere le contraddizioni e poi parlare con la speranza che lui ci da, quindi per quello che dico vedremo adesso questo però obblighiamo Touadi a chiudere per ridarci la speranza.

Video

Jean-Léonard Touadi :  “Abbiamo visto queste immagini che allargano un po’ il nostro discorso a quelle che sono le politiche dei grandi Paesi, i grandi flussi di armamenti, le priorità geopolitiche, e forse una delle cose che dovrebbe fare la società civile è di tornare ad una cooperazione a misura d’uomo, a misura di territorio, a misura di bisogni fondamentali. Una cooperazione fatta non solo di flussi ma che è fatta di volti, di volti, di mani strette, di fango, ecco questo tipo di cooperazione è un po’ quella che, se volete, ne possiamo parlare questa sera”.

Padre Fulgenzio Cortesi: ”Ecco lasciamo adesso uno spazio al dialogo, a chi volesse intervenire”

Risposte alle domande del pubblico

Jean-Léonard Touadi :  “Per chi non ha sentito la domanda chiedeva come, che è un po’ le opinioni pubbliche, che le popolazioni del Nord si sentano prese in giro dal modo che abbiamo visto di sperperare i soldi, che vanno nelle tasche di quei pochi e che non arrivano mai alle popolazioni. Ma, come fare? Come si fa ad avere la garanzia che davvero il frutto della propria sensibilità, il frutto della propria generosità possa toccare effettivamente le persone che ne hanno bisogno? Uno dei modi, io non ne conosco un altro, c’è sempre il pericolo che si riproducano a livello piccolo, dei comuni, delle province e delle regioni, gli stessi meccanismi che sono in atto a livello nazionale, a livello multilaterale. Ciò che stiamo cercando di fare è proprio mettere in collegamento le persone, secondo me, una cooperazione più di prossimità che è fatta dalla conoscenza dei luoghi, da un esperienza diretta, vissuta con testimoni che effettivamente non hanno altri corpi intermedi tra l’aiuto e le popolazioni ma che loro stessi stanno dentro. Io non ho ancora visto un lievito che fa, che gioca la sua funzione stando fuori dalla pasta; il mulino bianco non l’ ha ancora inventato questo tipo di lievito. Quindi se il lievito deve fare la sua funzione deve stare dentro la pasta, e uno dei difetti di questo tipo di cooperazione è proprio l’incapacità, ma forse anche la mancanza di volontà di queste persone, di stabilire un contatto diretto di..stabilire un rapporto di fiducia, di stabilire un rapporto di, quello che si chiama empowerment, di capacità di dare forza a questo che è un grande teologo africano, Padre Jean Marc Twelà, che purtroppo vive in esilio in Canada. Lui chiamava questi piccoli gruppi i nuclei di resistenza e di innovazione. Lui partiva da questa idea che non c’è posto così desolato, così disperato da non avere qualcuno, una persona, una mamma, una donna, un fanciullo, una maestra, un’infermiera in grado di esprimere una possibilità di speranza. Allora fare cooperazione per lui significa tendere la mano a queste forze qua, a queste realtà che cercano di muoversi, ai bambini che abitano li, nella casa della gioia di Padre Fulgenzio. Se noi avremo la capacità di tornare a una cooperazione fatta di piccoli passi ma piccoli passi che hanno il coraggio di guardare i volti, di attraversare i territori, di entrare dentro le realtà e di viverci dentro senza possiamo avere questo contatto che fa di noi, poi, quando torniamo in Europa, davvero dei portavoce non di qualcosa di cui abbiamo sentito parlare, non di un progetto disegnato a New York o a Washington ma di qualche cosa che è cresciuto mano a mano nel rapporto con queste popolazioni. Giustamente diceva prima Giorgio, se Bill Gates, da solo, è in grado di dare tutti questi soldi all’India, se le fondazioni bancarie oggi si stanno lanciando tutte nella cooperazione, quindi nel dare e nel fare, Ted Turner, il fondatore della Cnn fa cooperazione, quale puo’ essere il valore aggiunto della cooperazione fatta dalla società civile, dalle ong, dalle chiese? Il valore aggiunto, secondo me, non puo’ essere il fatto di competere nell’atto del dare e del fare. Forse un servizio che possono rendere è quello di creare ponti, di creare relazioni, di creare contatti; una città del Nord con una città del Sud, una scuola del Nord con una scuola del Sud, piccole realtà che si parlano, che dialogano, che si conoscono, che identificano i bisogni ma in una situazione proprio di orizzontalità relazionale. Se noi avremo, questa è la scommessa che io faccio, se avremo il coraggio di costruire tutto intorno a questa relazione evitiamo, intanto tutta la sere degli intermediari, ma lavoriamo su dei bisogni reali non su dei bisogni che sono nati a partire da protocolli dell’Onu e della Fao; qui sto segando in qualche modo il lavoro sul quale sono stato seduto perché mio padre è stato per un sacco di tempo funzionario della Fao, ma proprio perché lo so, mio padre molto probabilmente ha lavorato 20 % di quello che avrebbe potuto fare se stava in un altro luogo, perché il sistema non glielo permetteva. Quindi dobbiamo avere il coraggio di, io sono uno di quelli che sto lanciando l’idea drastica da un po’ di tempo a questa parte di almeno cinque anni di moratoria degli aiuti, tanto lì in Africa hanno capito che questi aiuti non servono, non servono a loro quanto meno, se non qualche briciola. Con queste grandi Ong o senza di loro la situazione non si è molto modificata; ma sono d’accordo che se vogliamo veramente continuare ad andare in questi Paesi deve cambiare la qualità della presenza, cioè dobbiamo modificare il nostro modo da andare verso questi Paesi. Se non lo facessimo forse è meglio che non ci andiamo.

Giorgio Fornoni: ”Semplicemente una battuta. Se noi pensiamo ai fondi raccolti adesso per quanto riguarda lo tsunami, nessun si è chiesto dove sono andati a finire quei fondi e da chi sono stati gestiti e come sono stati gestiti quei fondi; Milena Marianelli mi aveva detto, mi aveva chiesto di fare un aggiornamento. L’unica cosa che sappiamo è che quasi tutti questi fondi, al di la di quelli raccolti da piccole Ong o da gruppi missionari, tutti gli altri sono stati mandati proprio a un fondo, il quale fondo è stato poi mandato addirittura alle Nazioni Unite ed è stato dato in carico a una persona direttamente nominata da Bush quindi sappiamo perfettamente le cose dove possono essere andate, è chiaro che tanto arriva a destino, tanto ma non proporzionato chiaramente a quello che era stato dato, quindi anche lì ci si chiede come possiamo dare i fondi e a chi li dobbiamo dare? È chiaro che il discorso tsunami è suonato talmente forte e ci siamo sentiti talmente toccati dentro che nessuno di noi quasi ha voluto starsene fuori. Però dall’altra parte è importante sapere a chi dare e come dare. È per quello che in fondo forse le piccole organizzazioni, quelle che riescono a vivere veramente del proprio, e riescono a sognare proprio e ad arrivare alle persone cioè proprio nella dimensione umana, come diceva Touadi, ecco, secondo me, è una buona strada, forse potrebbe essere una delle uniche”.

Jean-Léonard Touadi : «No, no, non assolutamente nessun problema, io lavoro in un’azienda che ha come slogan di tutto e di più e quindi quando uno sì da quel programma tutto puo’ capitare e quindi all’interno di un’azienda che ha questo programma tutto puo’ capitare. Dicevo, al di la della buona volontà, quando si organizza un programma su un tema così delicato che puo’ essere il telethon piuttosto che questo programma o altri ancora, bisogna essere estremamente attenti a quello che si fa, agli ospiti che vengono, al cachet che sì da agli ospiti e così via dicendo. Questo programma che è costato tantissimo, che tra l’altro chiuderà in anticipo perché, mistero, quel programma, che io critico dal punto di vista televisivo ecc, è stato battuto nientemeno che dalla fattoria o da music farm, no, no mi pare andava in concorrenza con una altro programma, comunque da un reality show, quindi per questi motivi chiude in anticip questo programma della Carrà. Stiamo vivendo in un epoca dove è facile spettacolizzare il dolore e la sofferenza degli altri, e quindi quando si fa un programma del genere si deve essere drastici per quanto riguarda l’attenzione ai linguaggi che si utilizzano, alle cose che si dicono, alla selezione delle persone che vengono e uno degli scandali, per esempio, è il cachet degli artisti”.

Jean-Léonard Touadi : »Ah signora ! Pensa male, pensa malissimo, pensa molto male! Ecco, sarebbe bastato un cachet di uno di questi big, ecco, per esempio, tanto per.. dei nomi di grande richiamo del pubblico, e più gli chiamavano e più questi si facevano pagare. Quando tu mi chiami e io so che tu hai l’acqua alla gola, quindi hai bisogno di me, io alzo il mio cachet, non me ne frega niente dei bambini per i quali tu stai facendo questo programma. Alla fine della fiera qualche cosa sarà pure entrata nelle casse delle Ong che il segretariato sociale ha selezionato come beneficiari di questi proventi, ma quando si vanno a fare check and ballance, l’equilibrio tra i ricavi e i costi, purtroppo i costi superano di gran lunga di dieci, venti, trenta, quaranta,cinquanta, sessanta volte i benefici. Io che lavoro in quest’azienda mi dico è giusto farlo? Quid progress? Questo, solo questo. Poi ci sono delle cose, proprio dal punto di vista televisivo, che sono superate ecco, un modo di fare televisione che in questo momento comincia un po’ ad essere…però quello è l’altro lato del mio lavoro”.

Jean-Léonard Touadi : »Io penso questo, sarò breve perché il tempo passa, a me colpiva sempre quando andavo a scuola, quindi vi parlo del secolo scorso, mi colpivano parecchie cose che ora ogni tanto mi tornano in mente così, e tra le cose che mi colpiva, oltre il fatto di aver studiato che i miei antenati erano i Galli, i miei antenati, i Galli, e cantavamo le cime innevate dei nostri monti, le Alpi, in piena foresta equatoriale, tutto questo; però mi colpiva molto la figura di Tarzan. Tarzan che arriva, questo piccolo Tarzan, che arriva, cresce, trova lì gli africani che gia stavano li, conoscevano la foresta, gli alberi, le piante, dopo un po’ di anni la gente del villaggio andava da Tarzan e lui che gli spiegava le cose, che cosa dovevano fare, i misteri del villaggio, com’è possibile, ma perché, come mai? Tarzan che è arrivato dopo, è uno straniero, è un europeo..e se voi guardate anche la nostra modalità della Rai di raccontare la cooperazione segue questo modello qua: io descrivo un girone infernale, puo’ essere l’aids, la guerra, a un certo punto dentro questo girone infernale arriva, come per incanto, il deus ex machina che scende dal cielo, il volontario europeo, e poi vedete proprio questo deserto che comincia a rifiorire e agli africani restano sol canti e balli di ringraziamento di fronte a miracoli di questo tipo. Allora, io mi chiedo e vi chiedo, possibile che la dentro non ci sia una testa, un’intelligenza, una persona cui noi possiamo dire porta quel piccolo pezzo di pane, quei due pesci come base per fare la moltiplicazione. Non ho trovato in quel villaggio una persona, una. Allora, se sono cinquanta cosa farei, se sono quaranta cosa farei, se sono trenta cosa farei, una persona cui posso fare fiducia, con la quale posso cominciare a camminare. Fare cooperazione oggi, secondo me, è andare come Diogene andava per le strade di Atene in pieno giorno con la lampada e dicendo: "Cerco un uomo, cercate le persone in grado; però caspita! Dopo quarant’anni io incontro un missionario che gira ancora alle ventuno, ventidue con un mazzo di chiavi nel villaggio a chiudere le porte; dico ma perché lo fa lei? Perché non c’è nessuno in questo villaggio di cui mi fido. Bene, a questo punto Padre io gli do un biglietto, lo faccio tornare n Europa, perché lei mi sta certificando il fallimento della sua missione. È inconcepibile, cioè lei mi sta certificando il fallimento della sua missione. Se tu mi dici che non ti fidi di nessuno, non c’è niente capace qua, che cavolo hai fatto in quarant’anni? Questa è la questione che oggi ci dobbiamo porre. Siccome io penso che rispetto al passato oggi ci sono delle persone che sono in grado di diventare degli interlocutori che hanno bisogno di crescere, che hanno voglia di capire, che hanno voglia di fare, davvero il compito della cooperazione oggi è di dare le gambe all’Africa, di dare le gambe all’America Latina. Io ho un figlio di sette mesi, non vedo l’ora che cominci a camminare, che sta li, fermo, non si muove; ho bisogno che lui si muova, magari devo rincorrerlo, però, cavolo, che libertà! Cioè la mia gioia è quando lui comincerà a muovere i primi passi, magari mi rompe qualche cosa, ma chi se ne frega, capito? Io ho educato, ho ex lucere, cioè io ho condotto una persona dalla condizione dell’infanzia alla presa in mano delle sue responsabilità.

Jean-Léonard Touadi :  « È una domanda centrale questa qua. A proposito dell’identità, vi avevo promesso che avrei detto qualcosa sull’identità. Mancano otto minuti alle undici, alla seconda serata, quindi Bruno Vespa sta li, ancora non ha cominciato ancora, quindi abbiamo ancora tempo. A proposito dell’identità, a me interessa tantissimo quando gli italiani dicono che vogliono riscoprire la loro identità, è un discorso che mi eccita, veramente sono eccitato nel sentire questo discorso. Perché? Perché nell’identità europea, nell’identità italiana, ci sono delle cose che sui temi che noi stiamo trattando, che sono molto interessanti se noi gli recuperiamo, se noi riusciamo a recuperarli. Alcune cose, così. Quando si dice la difesa della vita come un valore assoluto, che cosa bella quella che noi affermiamo, però attenzione, non possiamo solo considerare questa vita nel suo stato nascente e nel suo stato morente, l’embrione e l’eutanasia, e lasciare tutte le persone in mezzo, gia nate, e che vivono in condizioni di vita infraumane come diceva Paolo Sesto. Non abbiamo niente da dire su questi qua? Non c’è una parola, non c’è un pronunciamento, e io penso questo, penso che saremo credibili nel difendere la sacrosanta battaglia dell’embrione e dell’eutanasia, saremo credibili se nel frattempo quella stessa determinazione, con la stessa forza, noi ci battiamo per dare una vita più dignitosa a quelli gia nati, gia nati e che non vivono una vita decente. Sant’Ireneo diceva la gloria di Dio e l’uomo vivo, bene, quanti uomini sono piegati sotto il peso dell’ingiustizia, della povertà, della miseria, della non vita, e per me quali noi tacciamo, stiamo in silenzio. Allora alcune cose che ci possono aiutare, la difesa della vita tutta, tutta; seconda la destinazione universale dei beni della terra, che cosa ne abbiamo fatto? Che fa sì che uno che nasce nella parte sbagliata del Mediterraneo è uno sfigato che puo’ morire anche senza medicine. Ecco, ci tornano utili alcuni principi sacrosanti di una dottrina sociale della chiesa secondo me, prima ancora che una dottrina religiosa, è piena di umanità. Il concilio diceva la chiesa è esperta di umanità. Ecco, la dottrina sociale della chiesa sotto questo punto di vista ci offre, ci apre delle prospettive anche di dialogo con i non credenti su questi temi qua. Europea, la persona, la centralità della persona, espressa meravigliosamente in questa massima di Kant agisci in modo tale che la persona in te e negli altri sia sempre considerata come fine e mai come mezzo, e posso andare avanti così nell’enucleare delle cose che fanno parte del patrimonio di pensiero, del patrimonio religioso, del patrimonio spirituale di questo Paese, di questo continente, di questo Paese. Come mai l’Europa, l’Italia, hanno abdicato di fronte all’assalto dell’impostazione anglosassone della globalizzazione? L’impostazione weberiana, il capitalismo mi Marx e Weber che ha vinto sulla dottrina sociale, sulla pratica solidaristica, sulla centralità della persona di Maritain e di Mugnè etc. Perché abbiamo abdicato? Perché l’Europa non ha negoziato i suoi valori e si è lasciata così trascinare sul treno di una globalizzazione più protestante e più calvinista che cattolica? Raccomando a tutti la lettura del libro di Jeremy Rifkin “Il sogno europeo” dove lui mette in paragone il tramonto, secondo lui, del sogno americano tutto basato un po’ sugli aspetti quantitativi, su l’economico e mai sugli aspetti relativi. Europa dove sei? Scopri le tue radici, scopri la tua identità, ma non come una spada per colpire i negri ma come qualcosa di più profondo, come valori ispiratori; su questo mi piacerebbe davvero che si aprisse un dibattito perché noi, noi dall’altra parte del mondo siamo interessati a questa riscoperta dell’identità europea. Non riesco a vederla questa identità da Maria de Filippi, nelle iper, coop etc. Non mi basta, non mi accontenterò mai che l’identità italiana sia solo questa, siccome ho il sospetto che c’è dell’altro, l’invito mio è di riscoprire questo e su questa base poi possiamo dialogare con l’Africa, con l’America Latina; e quindi rispondendo alla tua domanda, la questione per me è culturale, è etica prima ancora che di soluzioni, di technicalities, perché una volta che abbiamo posto la cornice ideale, politica, etica, filosofica, le soluzioni tecniche, economiche le troviamo, sono a portata, ci abbiamo sempre lavorato perché, mica siamo diventati più scemi adesso”.

Padre Fulgenzio Cortesi: ” Ecco volevo dire, aggiungere, siccome questa domanda è molto importante e tocca nell’essenza del discorso anche di questa sera ecco, si potrebbe anche dire che cosa veramente come ci poniamo, che cosa facciamo…da noi in Africa c’è un proverbio che dice amico non pensare che dove manca la corrente elettrica non ci sia la luce. Ecco, questo discorso, vuol dire che c’è parità di luce, forse più luce ancora, forse più civiltà, anche se meno progresso, forse identità profonda di persone, di umanesimo che avanza, che l’Africa dovrà portarci e arricchirci e nutrirci spiritualmente come esseri piuttosto che come averi. Ecco questo penso che sia molto importante, c’è tanta luce, anche se non arriva da noi la corrente elettrica in moltissimi posti. Quando noi pensiamo a questo allora potremmo innescare discorsi di meraviglia verso il fratello impoverito, che anche io non lo chiamo povero, sai? L’abbiamo solo impoverito, derubato, tante cose, più stima, più rispetto, perché la vita nei suoi valori fondamentali è questo, è questa dignità di figli di Dio creati veramente a Sua immagine e somiglianza, come il nero, come quello dell’America Latina, come l’europeo. Ecco pensiamo anche a questa realtà di parità di dignità, di forse superamento di civiltà da parte loro piuttosto che da parte nostra.”

Giorgio Fornoni: ”In base a quanto diceva prima quel giovane, io dico che se lottassimo per applicare la moratoria delle ong che io ho sosterrei, come diceva Touadi, bisognerebbe fare la moratoria anche delle guerre perché risolvendo il problema delle guerre l’80 % degli aiuti umanitari non servono, quindi potrebbe essere un passo; ma poi ce ne sono altre di situazioni però una cosa importante, secondo me, è che chi da qualcosa o fa qualcosa forse non è il caso sempre di andare a fondo a sapere perché; perché qualcuno ci aveva detto non sappia la destra ciò che fa la sinistra, qualcosa del genere, quindi.”

Dott.sa Gloria Facchinetti: ”Io volevo ringraziare tutti, ovviamente Jean-Léonard, Giorgio Fornoni e Padre Fulgenzio e voi che avete partecipato perché penso che anche ognuno di noi, nel suo piccolo, sia quella luce di cui loro parlano, perché alla fine è vero che esistono queste ong che lavorano in questo modo, però è anche vero che l’Europa non è solo questo, che la cooperazione non è solo questo, che anche tra noi, oltre a queste persone che sfruttano, ci sono persone che hanno veramente a cuore il bene, la felicità e la condivisione. Per cui credo che ognuno di noi possa essere una speranza in cui noi crediamo dal momento che siamo qua. Ovviamente Jean-Léonard tutte le volte ci da molti spunti su cui poi è possibile lavorare, l’importante credo che non sia uscire da questa sala e poi dimenticarsene oppure pensare che qualcun altro al nostro posto andrà avanti perché se non andiamo avanti noi penso che poi alla fine ci troveremo sempre qui a parlare ma le cose non cambieranno mai, e io invece credo che le cose possano cambiare perché credo sia casuale il fatto che uno di noi nasca qui piuttosto che in Africa, piuttosto che in Asia, però forse non è casuale che noi siamo qui questa sera e quindi credo che la volontà che ognuno di noi con la sua presenza dimostra stasera debba continuare e debba diventare sempre più forte, per cui spero ci sarà occasione di rivederci presto e di approfondire ancora questi temi. Grazie”.