Eritrea, un Paese in Crisi – di Francesco e Ivana

Al termine della nostra esperienza in Eritrea, durata due anni, è tempo di bilanci, considerazioni e valutazioni di vario genere. Non è facile, a caldo, giudicare quanto visto e sperimentato, estraniandosi da giudizi poco oggettivi o evitando sentenze approssimative dettate dall’emozione più che dal ragionamento, ma nel corso degli ultimi mesi di permanenza nel paese, abbiamo avuto modo più volte di interrogarci sul corso degli eventi e di analizzarne il significato e le dirette conseguenze.
Un anno fa circa vi avevamo scritto parlandovi del progetto realizzato dal CESVI di Bergamo a favore dei sieropositivi che vivono ad Asmara e nei villaggi limitrofi, oggi ci troviamo a scrivervi di un paese sull’orlo di una crisi prima di tutto umanitaria, poi sociale, economica e politica. Le ottime premesse dell’Eritrea subito dopo l’indipendenza ottenuta nel 1990 dopo 30 anni di lotta armata, hanno lasciato il campo ad una politica dell’isolamento economico e diplomatico, a causa di questioni non risolte con l’avversaria di sempre, l’Etiopia, e a causa di atteggiamenti ostili dei leader politici nei confronti dell’Occidente.
Dal 2004 molte cose sono cambiate, non con la stessa rapidità con cui spesso gli eventi si susseguono in Europa e in particolare in Italia, ma con discreto ritmo. Prima fra tutte, la progressiva scomparsa delle ONG locali e internazionali dal panorama nazionale, in seguito ad una nuova legge emanata dal governo con lo scopo di ridurne il numero, in quanto ritenute scomode o ingombranti, accusate dal governo di aver operato male, aver creato un circolo di dipendenza di parte della popolazione, ormai avvezza a ricevere aiuti e pertanto poco disposta a crearsi le opportunità di sviluppo, e soprattutto fortemente accusate di operare contro la politica del governo e addirittura di svolgere attività spionistiche.
Il CESVI ha dovuto chiudere il suo ufficio e licenziare più di 15 persone, dopo 5 anni di lavoro condotto secondo canoni di assoluta trasparenza e in accordo con le autorità locali. Solo 2 ONG italiane hanno ottenuto la registrazione mentre altre 8 se la sono vista negare. In generale la chiusura di quasi tutte le organizzazioni non-governative locali e buona parte di quelle internazionali ha determinato un notevole disagio in termini di copertura a livello locale di attività fondamentale a promozione dello sviluppo e a sostegno di emergenze varie, tra cui quella legata alla distribuzione di aiuti alimentari, farmaci e altro materiale di prima necessità, una progressiva burocratizzazione delle attività prima gestite con elasticità e flessibilità e una carenza di posti di lavoro altamente qualificati e ben retribuiti.
Analizzando criticamente l’operato del governo, pur consci dei tanti difetti delle ONG, non possiamo che esprimere un giudizio negativo su quanto accaduto, principalmente per le modalità con cui le scelte sono state effettuate e il clima di estrema confusione ed incertezza che si è generato nel tempo. Il colpo maggiore lo hanno avuto le ONG locali, fino ad allora espressione delle realtà associative, costrette come le altre a chiudere i battenti, ad interrompere le proficue collaborazioni con i partner stranieri, a licenziare tutto lo staff dei progetti.
La chiusura forzata della ONG per cui collaboravo ha di conseguenza determinato la fine anticipata anche dei progetti gestiti nel paese, incluso il progetto di cui ho avuto modo di parlarvi precedentemente. Le aspettative dei beneficiari del progetto sono pertanto state deluse e le risorse allocate per le attività previste perdute. Non è stata concessa la possibilità di portare a termine i progetti iniziati né di poter gestire una fase di progressivo passaggio del lavoro fatto ai partner locali; anzi, la lettera con cui il Ministero del Lavoro eritreo ha comunicato alle ONG di sospendere tutte le attività aveva addirittura un effetto retroattivo di 10 giorni! L’attesa di una registrazione che non è mai arrivata, dal mese di Agosto 2005 al mese di Febbraio 2006, ha tuttavia indotto molto di noi a rallentare le attività, a creare dei meccanismi a favore dello staff locale per ammortizzare il disagio e per rendere i partner locali capaci di gestire il passaggio.
Altri provvedimenti, di cui citiamo solo i più gravi e palesi, hanno contribuito a mutare il panorama nazionale nel corso del tempo, a partire dal 2004. Il parziale fallimento della missione di pace delle Nazioni Unite, denominata UNMEE (United Nations Mission for Ethiopia and Eritrea) nella definitiva delimitazione dei confini tra i due paesi del Corno d’Africa coinvolti in una guerra devastante durata quasi tre anni dal 1998 al 2000, anno degli accordi di pace firmati ad Algeri, ha causato un atteggiamento di progressiva insofferenza da parte del governo eritreo in particolare nei confronti dell’istituzione delle Nazioni Unite in primo luogo e nei confronti dei singoli paesi membri in seguito.
Prima di tutto c’è stata la limitazione delle opportunità di movimento delle truppe coinvolte nelle operazioni di peace keeping, con la conseguenza della dipartita del contingente italiano dei carabinieri, che svolgeva più che altro una funzione di polizia militare, in seguito sono stati proibiti i voli aerei e di elicotteri interni al paese. Nell’ottobre 2005 tutti i membri UNMEE provenienti da USA, Australia, Canada, EU sono stati invitati a lasciare il paese entro una settimana. La conseguenza di tali azioni e di altri movimenti di truppe al confine hanno portato all’innalzamento del livello di sicurezza delle Nazioni Unite, con l’obbligo per tutti coloro che avessero famiglia al seguito di evacuarla con effetto immediato e con l’attivazione di procedure di sicurezza ulteriori.
A Marzo 2006 un diplomatico italiano è stato prima arrestato e poi espulso con un avviso di 48 ore per aver adempiuto ad un dovere istituzionale nel garantire il rispetto di fondamentali diritti di compatrioti, tuttora in discussione, circa antiche proprietà in territorio eritreo. Alla fine di Maggio i viaggi all’interno del paese dei cittadini stranieri, già fortemente limitati solo a poche direttrici in virtù dei necessari permessi di viaggio da richiedere obbligatoriamente per chi volesse uscire da tali percorsi stabiliti, sono stati ulteriormente limitati imponendo l’obbligo di richiedere tali permessi anche per le mete prima consentite.
A livello locale, la popolazione ha progressivamente visto le proprie libertà assottigliarsi, sia in ambito sociale che economico. La progressiva statalizzazione dell’economia, virtualmente finalizzata al controllo delle riserve di valuta estera, necessarie per il procacciamento di beni essenziali e, detto tra le righe, di armamenti, ha determinato la revoca di molte licenze d’importazione e la contrazione dell’iniziativa privata in tutto il paese. La già evidente fuga di capitali verso paesi con un sistema bancario più sicuro, ha assunto proporzioni maggiori, determinando una debolezza estrema del paese ed una vulnerabilità. Le minacciate sanzioni economiche da parte dei paesi occidentali colpiti dai provvedimenti del governo eritreo non si sono concretizzate. Il carburante per automobili tuttora scarseggia e costa 2 euro al litro, il gas per uso domestico è particolarmente difficile da trovare.
Dal punto di vista sociale, l’assenza di libertà d’informazione e d’opinione, la limitata libertà di professione religiosa e l’obbligo da parte dei giovani a svolgere un servizio militare di durata indefinita al termine degli anni di scuola, con la prospettiva di non poter finalizzare la propria formazione in un’università (per altro l’Università di Asmara, prima fiorente, è stata progressivamente smantellata dal governo), hanno creato situazioni di frustrazione elevatissima, determinando il fenomeno della migrazione e di una seconda diaspora.
I rifugiati in Sudan sono migliaia, come migliaia sono ormai quelli che, sfidando il destino e mettendo a rischio la propria vita e quella dei parenti che rimangono in Eritrea (costretti a scontare una colpa evidentemente non loro per la fuga dei loro cari), intraprendono un viaggio che li porta attraverso il deserto in Sudan e poi attraverso il Mar Mediterraneo, con la speranza di un futuro migliore o, semplicemente, di un FUTURO. Si calcola che 1000 giovani eritrei al mese fuggano dal paese attraverso il Sudan o l’Etiopia.
L’economia ristagna, la società è immobile, le coscienze forzatamente spente. L’Eritrea sta lentamente morendo. Eppure, da quello che abbiamo potuto vedere e sperimentare in due anni di frequentazioni, molti eritrei hanno avuto la possibilità di studiare, di formarsi anche in scuole estere, molti addirittura in strutture universitarie italiane. Il livello di istruzione di molti dirigenti è elevato, così come ci sono nel paese molti uomini di affari affermati e facoltosi. Il commercio potrebbe essere una svolta per il paese, così come il turismo, considerando la povertà di risorse naturali dell’Eritrea.
Recentemente un facoltoso imprenditore bergamasco, Zambaiti, ha rilevato la vecchia Asmara Textile, azienda produttrice di filati, per farne un modello di produzione stile occidentale. Nel giro di un anno ha ristrutturato i vecchi capannoni della fabbrica, ha portato macchine dell’ultima generazione, ha formato del personale locale e iniziato la produzione di camice destinate al mercato italiano di lusso, per poi continuare ad espandere la produzione verso altri settori, come la biancheria per la casa e filati di altro genere. Altri imprenditori come lui sono attesi nel paese e potrebbero portare ricchezza e sviluppo, ma la questione si gioca sull’elevatissimo livello di rischio a cui vanno incontro tutti coloro che portano capitali nel paese. Che garanzie ci sono da parte del governo? Per quanto tempo si può pensare di operare in tranquillità?
L’industria del turismo è ferma. Le risorse ci sarebbero, ma il timore di una ripresa delle ostilità con l’Etiopia impedisce il rilancio del settore. Certamente servirebbero investimenti consistenti per fare delle coste dell’Eritrea, più di 1000 km sul Mar Rosso, e dell’arcipelago di isole Dahlak, incontaminato e potenzialmente richiamo di molti appassionati del mare e della sua fauna, meta di vacanze non solo d’elite ma destinate ad un pubblico di varia estrazione. I legami dell’Eritrea con l’Italia garantirebbero un notevole interesse del nostro paese verso l’investimento in questa ex-colonia.
Quali conclusioni si possono trarre da questa situazione così difficile e controversa?
La gente comune soffre delle conseguenze delle scelte politiche, non solo chi gestisce attività economiche di varia natura ed entità, ma anche le famiglie e coloro che riuscivano a vivere anche grazie agli aiuti che venivano dai parenti residenti all’estero, grazie ai progetti delle ONG, grazie alla presenza di stranieri sul mercato che acquistavano prodotti, frequentavano strutture alberghiere e ristoranti, grazie all’aiuto dei figli e dei giovani che ora sono costretti a prestare servizio militare a tempo indeterminato. L’Università è chiusa, le possibilità di formazione per i giovani ridotte al minimo, le libertà oppresse. Come sfondo a tutto questo si deve poi considerare l’AIDS, un fenomeno in continua espansione, nonostante gli sforzi profusi dal governo in direzione di un suo contenimento e limitazione. L’apparente successo delle strategie a contenimento della diffusione dell’HIV e il recente avvio della distribuzione di medicinali antiretrovirali (ARV) per il trattamento riservato ai sieropositivi tuttavia non sono riusciti a limitare la diffusione del virus. Le statistiche ufficiali parlano di un 4% di sieroprevalenza nella popolazione adulta, ma le cifre sono molto più alte.
Vorremmo richiamare dunque l’attenzione su questo paese spesso dimenticato e sulla sua gente. Occorre avere la consapevolezza della complessità della situazione e al tempo stesso non stancarsi di raccogliere informazioni ed altri input. Allo stato attuale delle cose, l’opera di sensibilizzazione e di informazione è ciò che concretamente può giovare alla situazione, in quanto l’operatività è molto limitata. L’Italia continua ad accogliere profughi entro i propri confini e occorre continuare a gestirli nel modo più razionale possibile, per tentare di non rigettarli nell’incubo da cui provengono ma al tempo stesso per non rifornire il “traffico di esseri umani” che si alimenta con questo “esercito di disperati”. L’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati sta adottando delle misure a supporto dei singoli governi coinvolti in questa accoglienza di profughi, ma occorrono delle misure legislative chiare e definitive che possano vedere una molteplicità di governi impegnati a far fronte a questa emergenza. Certamente l’opera di pressione politica nei confronti delle varie dittature non solo in Africa ma nel mondo, può aiutare in direzione di una mitigazione di pressioni nei confronti della popolazione e del rispetto dei diritti umani fondamentali, quando tali pressioni non siano però compromesse da interessi economici legati al traffico di armi e di altro genere. L’interesse dei paesi e delle popolazioni oppresse devono avere la meglio sugli interessi economici e di parte.
Recentemente, un comitato di ONG italiane direttamente coinvolte nella “questione eritrea” sta promovendo un’interrogazione al parlamento europeo per una maggiore presa di coscienza della situazione attuale e per una presa di posizione ben determinata da parte dell’Unione Europea, che rimane il maggiore donatore attualmente in Eritrea.
Tutto ciò nella speranza che il processo di democratizzazione ricominci e che le risorse della società civile presenti nel paese e al suo esterno possano riattivarsi per riportare l’Eritrea a livelli di vivibilità.