Prima conferenza harambee – 27 maggio 2005 – testo completo
“IL BAMBINO AFRICANO: DAGLI ORFANI DELL’AIDS AI BAMBINI SOLDATO”
Relatore: Jean Leonard Touadi
Interventi: Giorgio Fornoni, Padre Fulgenzio Cortesi, Gloria Facchinetti
Padre Fulgenzio Cortesi introduce la serata dando la parola a Gloria, presidente di Harambeè: “L’associazione è nata sei anni fa dal sogno di un gruppo di ragazzi insieme a Padre Fulgenzio. Gestisce dei sostegni a distanza in Tanzania, Brasile e Messico, ha sviluppato anche delle micro realizzazioni e dispone di una bottega del mondo. Dal momento che il sogno di noi soci fondatori è quello di fare cultura più che dare un aiuto materiale all’Africa o ai paesi del Terzo Mondo, questo nostro primo incontro vuole essere l’inizio, speriamo, di una serie di approfondimenti sulla cultura, su questi mondi così lontani da noi ma così affascinanti. Il motivo per cui Harambeè è nata è proprio per creare curiosità nella nostra parte di mondo, al fine di conoscere un mondo diverso dal nostro ma comunque molto bello e affascinante. Questa sera abbiamo la fortuna di avere con noi Jean Leonard Touadi, una persona molto preparata per parlare di questo tema così bello e così ricco che sono i bambini. E’ con noi anche Giorgio Fornoni che lavora per Report e che ci farà vedere alcuni dei suoi filmati più belli. Inoltre Padre Fulgenzio, presidente onorario dell’associazione, nonché nostro ispiratore, che farà una breve presentazione di questi personaggi. Grazie.”
PADRE FULGENZIO: “Sono veramente contento questa sera di avere qui due amici con i quali si è lavorato insieme nei mass media, con la stampa e la televisione, sia in Africa che in Italia. Jean Leonard Touadi, penso uno dei più profondi conoscitori del suo continente, della sua storia, della sua antropologia; giornalista Rai, scrittore e documentarista, filosofo e sociologo insieme. Giorgio Fornoni, giornalista coraggioso e all’avanguardia, in grado di cacciarsi negli angoli più tormentati e pericolosi della terra, al fine di documentare a se stesso e al mondo le sue piaghe più terribili. Questa sera affronteremo il tema “Il bambino africano: dagli orfani dell’Aids a bambini soldato”. Io mi fermo sulla prima parte “il bambino africano”, che poi svilupperà ancora meglio di me un africano doc, un africano del Congo, Jean Leonard Touadi, affiancato da Giorgio Fornoni nello sviluppo della seconda parte “dagli orfani dell’Aids ai bambini soldato”. Il bambino africano rimane uno dei valori più duri a morire, grazie a Dio, ma si sta facendo di tutto per distruggerlo. In meno di due generazioni, praticamente dall’epoca delle indipendenze, sono stati commessi e si stanno commettendo crimini spaventosi e innominabili contro il bambino africano. L’Africa muore ogni volta che muore un villaggio, ogni volta che muore un bambino e ogni giorno si svuotano i villaggi e muoiono i bambini. Quante cose in Africa non si riescono a capire, quante contraddizioni. Imparare la fede ogni giorno e avvertire nelle vene l’urlo dello scandalo. Sentirsi estranei e insieme protagonisti, inutili e indispensabili allo stesso tempo, troppo piccoli per la missione in cui si è chiamati e troppo grandi per averne accettato le conseguenze. Eppure in Africa ogni giorno è stupore, ogni volta mistero ed ogni incontro soglia dell’eternità.
Ed ogni volto di bambino nasconde un miracolo di tenerezza stupita. In Africa tutto sembra lontano eppure presente, tutto sembra capibile e incomprensibile, tutto sembra grazia e dono; anche la lingua che non si riesce bene a capire, le parole che non si sanno pronunciare e le lacrime che non si riescono a versare.
Quante volte quest’Africa mi fa vivere la voglia di tornare bambino e figlio, anche se mi chiamano Padre, perché in Africa prima di farsi Padre bisogna farsi figlio, figlio di un popolo, di una cultura, di una tradizione; figlio di una capanna qualsiasi nella sterminata e assolata savana. È stato scritto: “ L’universo africano è come un’immensa ragnatela, non si può toccare un filo senza che tutto il prodigioso ordito non venga a vibrare, tutto è connesso e solidale, tutto concorre a formare l’unità. Il bambino però occupa un posto privilegiato: egli è al centro della ragnatela, è il centro e tutto converge verso di lui ”. Il bambino africano è stato definito “ plenitude de proget ”, una grande pienezza di progetti, un io futuro in stato di esplosione continua, simbolo del divenire cosmico. Il bambino, epicentro dell’universo africano, segno del divino sulla terra, dono degli antenati, mediatori fra il mondo celeste nel contesto delle religioni dette naturali. Se l’Africa si salva, e si salverà, è e sarà per il suo bambino. Se vi è una terra e una cultura in cui la maternità in quanto tale è un valore primordiale e il bambino di conseguenza è considerato come un’epifania del divino, questa terra si chiama Africa, laddove tutti noi nascemmo. Il bambino africano, mistero e sacralità. Ben si adatta a questo continente la frase di Tagore: “Ogni bambino che nasce ci porta il messaggio che Dio non è ancora stanco dell’uomo”. La gente della tribù di Bambarà dice che la morte non si può curare, che alla morte non vi è rimedio, ma l’unica cura e rimedio è il bambino. È su questa nota di ottimismo che apro questa serata lasciando ai miei cari amici il proseguimento del tema, purtroppo il racconto di una strage degli innocenti programmata non dagli africani ma da politiche lontane.”
JEAN LEONARD TOUADI: “ Prima di conversare insieme, cominciamo con delle immagini dell’Africa girate da un testimone del nostro tempo, Giorgio Fornoni, relative agli ultimi dieci/quindici anni. Possiamo prendere come inizio il 10 Maggio 1994, data in cui, contemporaneamente, a Pretoria, scendeva la bandiera dell’Apartheid in Sud Africa e s’innalzavano nel cielo africano i colori dell’arcobaleno, i colori dell’ENSE, il partito di Mandela, primo presidente del Sud Africa finalmente riconciliato con se stesso. Ebbene tutti noi politici, delegati ufficiali, ministri, presidenti, tecnici, tutti noi piangevamo di emozione quel giorno a Pretoria mentre pochi mesi prima, poche settimane prima, in Ruanda , non lontano dal Sud Africa si stava consumando il genocidio ruandese: un milione di morti tra il 6 Aprile e il Luglio 1994. Allora tutti si sono chiesti: “ Che cosa ci dà l’Africa? L’afro pessimismo o l’afro ottimismo? ”. Se guardiamo l’immagine di Mandela che sale al potere dobbiamo essere speranzosi nei confronti di un’Africa che finalmente si riconcilia con se stessa, con una parte importante della sua storia e che comincia un cammino nuovo e di rinascita. Dall’altro lato invece, quei meravigliosi e grandi laghi africani, il cui specchio d’acqua era pieno di cadaveri, di corpi. Quell’Africa ci da queste due fotografie: momenti di grande speranza ma anche momenti di una storia travagliata. Ci sono due modi di guardare queste due cose: possiamo guardare le immagini che vedremo come gli ultimi sussulti di un corpo in agonia che ormai sta andando verso la sua morte, oppure come le convulsioni febbrili di un corpo in crescita. Io stasera prendo come ipotesi la seconda: le convulsioni febbrili di un corpo in crescita, che subisce i suoi mutamenti storici sulla pelle dei più piccoli, sulla pelle dei suoi bambini che diventano bambini soldato, ragazzi che scavano nei fiumi per il diamante che andrà a ad ornare il collo scollato di una nobildonna in Europa. Vi lascio alle immagini di Giorgio Fornoni che ci portano un po’ in giro nell’Africa a vedere le condizioni dei bambini. Grazie…”
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“… Le immagini che abbiamo visto non hanno bisogno di commento, quello che dobbiamo fare questa sera è cercare di comprendere, comprendere nel senso letterale della parola: prendere insieme, in altre parole capire ciò che abbiamo visto in tutta la sua complessità, in tutta la sua pienezza. Se mi permettete prima di passare all’attualità, al tema dei bambini soldato e al tema dei bambini vittime dell’AIDS, mi piacerebbe raccontarvi ciò che erano il continente africano, le società africane e la cultura africana prima di questo grande sconvolgimento che per noi ha rappresentato la colonizzazione. Mi piacerebbe raccontarvi quale era il ruolo dei bambini, la loro importanza all’interno di questa società. E’ stato recentemente tradotto in italiano un libro molto interessante pubblicato nel 1948 e scritto da un missionario belga, Padre Tempels, sostenitore dell’infondatezza della tesi secondo cui i popoli africani costituivano dal punto di vista della cultura, dell’antropologia della religione, un popolo tabula rasa, una specie di cera vergine sulla quale poi gli europei avrebbero potuto scrivere ciò che volevano. Questi popoli al contrario avevano una loro cultura, una loro visione del mondo e delle articolazioni di società molto prima che arrivassero i colonizzatori. Padre Tempels identificava l’elemento conduttore di queste culture nella forza vitale, quella cosa che faceva muovere gli uomini africani, le società africane. Tutti noi popoli Bantu, villaggi, culture, eravamo inseriti in questa specie di grande contenitore che era la forza vitale. Un poeta africano molto famoso, Sengor, diceva: “ Se i popoli europei hanno basato il loro pensiero, il loro modo di essere sul cogito ergo sum, noi africani possiamo dire ballo dunque sono”. Il ballo non è qualcosa di folclorico come a volte si tende a far vedere ma per i popoli africani costituisce un modo d’essere, l’espressione più alta, più nobile e più profonda di questa forza vitale che abita gli uomini, gli animali, le piante. Tutti noi siamo portatori di un elemento, di un soffio di questa forza vitale, una specie di forza cosmica che abita tutti gli esseri. L’unità, la coesione sociale come tratto fondamentale di queste società, tant’è vero che, i due estremi della vita rappresentati dai bambini e dagli anziani costituiscono gli elementi centrali della catena vitale. Perché? I bambini perché sono la prova vivente che questa forza vitale continua sarà perpetuata e avrà un seguito, avrà una sua perennità. Gli anziani perché sono coloro che hanno attraversato per intero tutta la catena della forza vitale, divenendo antenati una volta passati dall’altra parte del fiume. Non è concepibile in africa un matrimonio senza la nascita dei figli poiché questi ultimi costituiscono una promessa di perennità, di continuazione della forza vitale. L’importanza quindi dei bambini come segno tangibile della sacralità della vita e degli anziani come coloro che, una volta attraversato il fiume della vita, diventano i nostri avvocati. In africa il culto per gli antenati è molto vivo. Io stesso non potrei mai arrivare a Brazville senza per prima cosa recarmi a rendere omaggio alla tomba di mio nonno, del mio bisnonno, cominciando a salutare parenti e amici solo dopo aver compiuto tutti i sacrifici. La cultura africana quindi come cultura della vita, nella quale gioca un ruolo di fondamentale importanza la coesione, quella nozione importante che noi chiamiamo ubuntu o chimunto. Il chimuntu è quell’elenco di caratteristiche che fanno dell’uomo un essere genuinamente buono, autenticamente uomo, quell’elenco di caratteristiche in assenza del quale, nella cultura africana, è impossibile essere considerato e sentirsi un uomo. Ad ogni bambino africano, a ciascuno di noi che cresceva in Africa, la nonna e la mamma hanno sempre ricordato l’importanza di seguire il proprio ubuntu, il proprio essere uomo, i valori che genuinamente, autenticamente, fanno di te un uomo. Ubuntu è anche questo slogan incredibile in base al quale io sono perché voi siete, io non esisto da solo se non in relazione con gli altri ubuntu. L’importanza della relazione, della coesione sociale, dell’essere uno per tutti e tutti per uno. Non so se qualcuno di voi ha avuto la fortuna di vedere quel film bellissimo girato sulla storia della Commissione Verità e Riconciliazione in Sud Africa Intitolato “Not in my name”, dal quale la possibilità in Sud africa di riconciliare neri e bianchi, proprio grazie alla presenza della nozione di ubuntu. Un’immagine di queste società così coese, così fortemente unitarie, totalizzanti, nelle quali la relazione è il tutto. La più grande povertà per un africano, non è la povertà economica, bensì la mancanza di una relazione, tant’è vero che, nelle lingue bantu, il verbo avere è sostituito dal verbo essere con. L’avere non esiste ma esistono l’essere, la relazione. I bambini quindi nascono e crescono inseriti in questo flusso vitale, in questa forza vitale al cui interno ciascuno ha un ruolo e un posto ben definiti. In queste società basate sull’oralità, l’anziano diventa depositario per eccellenza della memori, dell’identità. Come diceva Amadu Ampateba, ogni anziano che muore è una biblioteca che brucia, perché con lui scompare tutto un mondo di esistenza, un cumulo d’esperienza. Il bambino è colui che è destinato a diventare anziano e in quanto tale protetto e sacralizzato in tutti i modi, tant’è vero che, la sciagura più grande che possa capitare a una donna africana, è quella di non poter avere figli. I giovani volontari che, a 24 o 25 anni si recano in Africa, si sentono chiedere nei villaggi il perché non hanno figli, perché non sono sposati. Gli africani rimangono basiti perché non riescono a capire una persona adulta senza figli e i missionari hanno fatto molta fatica a provare la propria credibilità, facendosi chiamare Padri senza avere figli e senza essere sposati. E’ servita una grande opera di evangelizzazione per spiegare l’altra paternità, quella che non passa attraverso la biologia. Siamo quindi in presenza di culture nelle quali il bambino è fondamentale, al punto che al fine di assicurare ad un uomo una prole, veniva concessa la possibilità di congiungersi con la sorella della moglie nel caso quest’ ultima non avesse potuto dargli dei figli. Attualmente però, in nome dell’integrità fisica della persona, del diritto della donna di scegliere, è necessario andare a rivedere certi aspetti anche scandalosi. Purtroppo però, questo mondo cos’ meraviglioso che vi ho descritto, ad un certo punto, a partire dal 1948, attraverso la colonizzazione, conosce l’irruzione della modernità. Se vi capitasse di leggere un bellissimo romanzo scritto dal senegalese Ceicadumicane e intitolato “ L’ambigua avventura”, potreste davvero capire cosa per l’Africa e per gli africani ha significato e significa tuttora la colonizzazione. Significa la fine di un mondo, il tramonto di questo mondo, il tramonto di questi valori, con l’inserimento dell’Africa in un mondo diverso, in un fiume diverso. Desmontutu, premio nobel per la pace, vescovo anglicano di Joannesburg, l’uomo più famoso del Sud Africa prima di Mandela quando ancora era in carcere, raccomandava di prestare attenzione a quegli uomini poiché al loro arrivo gli africani possedevano la terra e loro la Bibbia, al contrario, quando sono andati via, hanno lasciato gli africani con la Bibbia e si sono presi la terra. La colonizzazione vista come usurpazione dello spazio e del tempo degli africani, privati del proprio spazio non solo materiale, ma soprattutto e ancor più importante, dello spazio simbolico. L’usurpazione dello spazio simbolico come fine de quel mondo che vi ho descritto per entrare in un’altra logica, vinti dagli occidentali, dagli europei attraverso l’arte di vincere senza avere ragione. Questo paradigma fotografa bene la natura stessa dell’esternarsi dell’occidente nel nostro mondo, un ingresso non negoziato ma subito, che in quanto tale ha introdotto degli elementi di disordine all’interno di una sociologia relazionale, di valori antropologici che non erano paradisiaci. La schiavitù e la colonizzazione hanno rappresentato per l’Africa uno sconquasso sociologico, antropologico, relazionale, valoriale, politico, economico, con il quale ancora sta facendo i conti, basti pensare ai meccanismi della globalizzazione. È chiaro che ci sono stati e ci sono tuttora degli africani che si sono prestati e si prestano tuttora a fare da intermediari nei confronti di questa presenza brutale e violenta, ma ciò non significa che l’impatto della modernità, dell’arrivo dello straniero, non sia stato devastante. Il presidente del Burkina Faso del 1984, un giovane presidente, diceva agli africani una cosa molto sensata, diceva di smetterla di chiedere agli europei la cancellazione di propri debiti, poiché la mano che riceve sta sempre sotto quella che da. Occorre chiedere invece la negoziazione dei debiti, non solo di quelli economici e finanziari, ma anche di quelli storici, antropologici, dei debiti frutto della devastazione di intere culture, di interi modi d’essere, di interi sistemi valoriali. Soltanto allora ci renderemo veramente conto che nel gioco dei debiti e dei crediti forse noi africani siamo creditori nei confronti dell’Europa. Ecco il senso delle immagini relative ai bambini soldato, ai bambini che anziché giocare passano tredici ore al giorno con i piedi nell’acqua, a setacciare il fiume alla ricerca del diamante o del coltan, una pietra nera il cui nome scientifico è colombotantalite e senza la quale non esisterebbe alcun computer, alcuna tecnologia aeronautica. L’invito è di non considerare ciò come una tara genetica, biologica degli africani. Si tratta di guerre nelle quali a combattere scendono in campo dei corposi interessi economici, che non dicono i loro nomi, però sono presenti. Chiunque viaggia in questi paesi può dare un nome a questi interessi: si chiamano Agip, Elf, Alegna, Texaco, Cherron, China Oil Petrolium. A mio parere, potremmo chiamarle guerre etniche soltanto se ammettessimo che anche le multinazionali altro non sono se non grandi etnie. Quindi ecco che ci ritroviamo con dei bambini che anziché andare a scuola, anziché prepararsi a prendere in mano il destino di questi paesi, sono costretti a combattere. I bambini soldato avrebbero tutto il diritto di chiedere il perché in certe contrade acqua, pane e medicine non arrivano mai, ma la beretta c’è sempre e comunque. Oggi nella zona dalla quale provengo, che è la regione dei grandi laghi, la cosa più facile da acquistare con 15 o 20 dollari, sono le armi. A Goma, a Chinciasa, a Chisangani si acquistano tranquillamente le armi di fronte a donne che ancora muoiono di parto. I bambini soldato come il riflesso più drammatico e forse più inquietante di come i meccanismi che guidano la geopolitica e l’economia di questo mondo necessitano di essere capiti, analizzati, stigmatizzati. Bambini ai quali, in cambio di qualche fagiolo e pesce secco da mangiare, non è data nessuna altra alternativa se non quella di prendere le armi. Vogliamo parlare dell’AIDS, dei bambini vittime di questo flagello, soprattutto nella eastern Africa, paesi con un’incidenza del 20% di popolazione infetta, con un’intera generazione scomparsa a 30 massimo 35 anni, rendendo i propri figli degli orfani. Pensiamo al fenomeno della disoccupazione, che colpisce paesi come il Lesoto, incuneati dentro il Sud Africa, paesi che, privi di ogni risorsa, costringono gli uomini a spostarsi, a cercare lavoro nelle miniere, mesi e mesi lontani da casa e, a meno che abbiano fatto voto di castità, vanno con le prostitute, il miglior modo per infettare al loro ritorno mogli e figli, intere famiglie. Quindi capite come il semplice fatto di non avere lavoro, di andarlo a cercare in una zona mineraria, possa provocare in tempi rapidi la diffusione dell’AIDS, a dimostrazione del nesso fortissimo tra la condizione di povertà, di disagio economico e l’assenza di profilassi, di sensibilizzazione. Laddove la gente è analfabeta, ecco che, parlare di paternità e di maternità responsabile diventa un’illusione, data l’assenza di mezzi culturali oltre che economici. La situazione è terribile per paesi come la Tanzania, lo Zambia, nei quali su dieci milioni di abitanti, un milione di bambini sono orfani. È qualcosa di abominevole, che compromette non solo il futuro di questi bambini, ma anche il futuro di questi paesi. Siamo di fronte ad un mondo stranamente impazzito, dai parametri difficilmente maneggiabili. Cosa fare di fronte a tutto ciò? Nessuno pensa ad una soluzione. Sentivo in questi giorni a Roma Bob Gheldolf, a proposito della necessità di aumentare per questi paesi le quote di aiuto pubblico. A mio parere, ciò non è sufficiente, o almeno non lo è più, poiché le risorse economiche sono si condizione necessaria ma non più sufficiente per affrontare questi problemi. Ci rimane pertanto la strada della cooperazione, un termine molto bello nei confronti dell’umanitario, che oggi purtroppo sta diventando qualcosa di pornografico, qualcosa di scandaloso. La cooperazione può diventare un’ancora di salvezza, poiché non si limita a distribuire soldi in modo indiscriminato, rimandandoci alla necessità della consapevolezza, alla necessità di una cittadinanza attiva, comprendendo e criticando questi meccanismi nel senso più positivo dei termini. Ci si sta rendendo finalmente conto che l’economia da sola non basta, che delegare questi meccanismi alle sole forze di mercato non è più soddisfacente. Si avverte la necessità di riprendere in mano la politica, quella vera; la necessità di ricomporre le contraddizioni presenti nel nostro mondo diventato globale. La cooperazione che mette di fronte due comunità, due culture; che mette in relazione la scuola di Bergamo con quella della Tanzania, la Chiesa di Roma con quella di Chinciasa, il comune di Torino con quello di Nairobi. Questa cooperazione decentrata che non è solo dare, ma è anche ricevere, scambiare, ridando dignità a queste culture che ne meritano al pari o forse più di molte altre. Trovandoci oggi a ragionare sul tema dei bambini soldato, dei bambini orfani dell’AIDS, in realtà altro non facciamo se non ragionare su noi stessi, su come va il nostro mondo, sui nostri modelli di consumo, sul nostro insaziabile desiderio di crescita che, intesa come cumulo di beni materiali, come benessere, non potrà mai da sola far star bene le persone. E’ in termini di benessere relazionale, valoriale, di benessere come capacità di gioire, di sorridere, che occorre ragionare. Ed è in cambio della liberazione dalla schiavitù economica, dalla necessità delle cose materiali, che l’Africa potrà restituire all’Europa la più grande ricchezza perduta: la gioia di vivere, il desiderio di salutare il vicino, di spendere i soldi quando si hanno, poichè l’investimento più ricco e duraturo che si possa fare, è quello sul sociale, sul capitale umano. Queste sono le ricchezze che l’Africa potrà ridare all’Europa: valori umani, non africani, non europei, ma semplicemente umani. Ed è proprio attraverso l’alleanza tra queste due forme di schiavitù, economica per l’Africa e sociale per l’Europa, che sarà possibile trovare la chiave per risolvere anche la questione dei bambini soldato.
Grazie”.
PADRE FULGENZIO: “Come sempre sorpresi dall’attualità e dalla profondità di Jean Leonard, avremmo il piacere di sentire due parole anche da Giorgio, colui che si caccia sempre nei guai, colui che gira il mondo realizzando delle straordinarie documentazioni sui bambini, quelli soldato, bambini martirizzati e provati”.
GIORGIO FORNONI: “ Recentemente ho avuto la fortuna di vedere “ Hotel Ruanda” e, lavorando sulla nostra indifferenza, mi sono trovato a piombare nel vuoto. Io ho viaggiato molto, ho visto molte di queste situazioni, ma di fronte al film, mi sono sentito incapace di agire e parlare. Cosa dovremmo fare? I sogni di Jean Leonard sono veramente dei sogni dal mio punto di vista. Una cosa importante, nella quale credo fermamente è che, noi uomini bianchi, noi che stiamo al di sopra, dovremmo sviluppare la capacità di dare prima che ci venga chiesto e soltanto allora ci verrà in mente di possedere una nostra identità. Io la vedo la sofferenza, la vedo l’ingiustizia, ma, a differenza dei missionari che riescono ad aiutare pur soffrendo essi stessi, io, una volta terminato il mio lavoro, scappo, torno alla mia casa davanti ai miei due televisori e alle mie due auto”. A questo punto Padre Fulgenzio invita il pubblico presente ad intervenire sull’argomento.
GLORIA FACCHINETTI: “ Se permettete vorrei dire una cosa da persona normale, nel senso che non ho la loro preparazione, la loro esperienza e non faccio neanche quello che fanno loro. Quello che vorrei però poter fare è creare la curiosità nel nostro mondo, al fine di conoscere quello che in parte è stato raccontato stasera. A me è successo di vedere “ Hotel Ruwanda” chiedendomi quanti anni avevo quando è successo e mi sono accorta che avevo un’età in cui potevo capire e nonostante ciò ero tra quelli che mangiavano guardando il TG. Quello che secondo me è importante capire è che non dobbiamo sempre parlare di Africa e di Terzo Mondo come qualcosa che non dipende da noi, della quale non abbiamo alcuna responsabilità, come quando guardiamo immagini dei campi di concentramento pensando che in fondo non eravamo ancora nati, mettendoci apposto la coscienza. In Africa ci sono tanti conflitti e guerre tutti i giorni e noi non ne sappiamo nulla perché non ci interessa. Sono appena tornata dell’Eritrea e ho scoperto che è un paese dimenticato dal resto del mondo, nonostante abbia tuttora un conflitto in corso e la gente continui a morire tutti i giorni. Quindi forse i mezzi di informazione non ci informano ma forse anche perché a noi non interessa essere informati. Chiediamo ai mezzi di informazione di darci delle notizie su qualcosa che interessa a noi piuttosto che qualcosa che a noi interessa farci sapere. Io credo che anche il nostro ruolo di singoli cittadini sia importante e che sia ora di finire di relegare sempre a qualcun altro; noi forse non abbiamo le loro capacità, ma questo non giustifica il nostro poco impegno e la nostra superficialità nel trattare queste cose. Per cui essere curiosi, voler sapere, capire, conoscere, credo che sia il compito di ognuno di noi. E già se ognuno di noi nella sua realtà riuscisse a suscitare questa curiosità riuscirebbe a fare ciò che J.L.T. ci ha suggerito.
GIORGIO FORNONI: “ E’ un mondo non facile neanche da parte dei media. Io penso che una scommessa importante per ognuno di noi, sia quella di riuscire ad incontrare una persona che al di la del colore ci possa dare la possibilità di fare uno scambio di idee, di storia, di cooperazione. Comunque noi che andiamo in questi posti incontriamo queste persone che hanno tanta dignità da trasmettere, che è proprio vero che ci dovremmo sentire sempre in debito.”
JEAN LEONARD TOUADI : « Quando parliamo di informazione rispetto all’Africa, un tema sul quale faccio convegni, dobbiamo tenere conto del contesto nel quale questa informazione avviene. Viviamo in tempi in cui c’è stata promessa un’economia di mercato, ma la verità è che stiamo vivendo in una società di mercato. Intendo che le dinamiche dell’economia, della produzione di beni economici, hanno finito per invadere anche quelle sfere della vita personale pubblica che nulla hanno a che fare con l’economia. Accettiamo anche l’economia di mercato, ma chi di noi ha chiesto di vivere in una società di mercato dove tutto diventa mercato? Avremo mai il coraggio come persone umane, come cristiani, di sottrarre aspetti importanti della nostra vita alla logica del mercato? Ecco che la questione dell’informazione sull’Africa rientra in un quadro in cui anche l’informazione, anche la cultura, sono diventate delle merci e in quanto tali fluttuano nel mercato delle merci in funzione della legge della domanda e dell’offerta. Quando parliamo di informazione sull’Africa dobbiamo tener conto che lo scenario è questo. Se noi non critichiamo questo tipo di impostazione ecco che difficilmente le istanze dei popoli che soffrono possono trovare una loro cittadinanza informativa e comunicativa, almeno che questa notizia rientri nel grande mercato della spettacolarizzazione e quindi diventi parte del meccanismo della domanda e dell’offerta. Quindi non bisogna soltanto puntare il dito contro RAI e MEDIASTE, ma c’è anche un problema di cittadinanza attiva che dobbiamo ritrovare. Ecco che quindi c’è bisogno di ritrovare una cittadinanza attuando anche delle misure di digiuno televisivo come segno di testimonianza allo scopo di far cambiare ed avanzare le cose. C’è bisogno di ritrovare un’etica televisiva, della cittadinanza.”
PUBBLICO: “ In riferimento a ciò che sta succedendo in questi giorni, a questa mission impossibile di Tony Blair che sta cercando di coinvolgere i sette paesi su un piano di un aiuto concreto nei confronti dell’Africa indipendentemente da quelli che possano essere i risvolti suoi interni che sono più o meno intuibili. Una parola riguardo a questo”.
GIORGIO FORNONI: “ L’Inghilterra vuole recuperare parte del terreno perduto come colonia. Quindi si tratta di una nuova politica coloniale, un nuovo colonialismo”.
JEAN LEONARD TOUADI: “ Io sono uno dei membri della Commission for Africa, ho partecipato ai lavori con il guru Bob Gheldof, alla stesura di questo rapporto ottimo, ma di rapporti ottimi in questi anni se ne sono scritti tantissimi. Secondo me il suo rilievo più importante è che ancora una volta mira a curare gli effetti senza curare le cause della disuguaglianza economica tra paesi ricchi e poveri, cause strutturali note a tutti. Non c’è un progetto che possa andare avanti senza mettere in discussione il cosiddetto consenso di Washington e cioè l’imposizione da parte della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale di politiche neoliberali che nulla hanno a che fare con le dinamiche economiche di questi paesi. Da qui la necessità di rimettere mano a questi meccanismi, di toccare la questione del debito, di andare a rivedere le regole del commercio mondiale. Queste sono le regole che ci siamo dati ma che non rispettiamo. Allora mi viene una riflessione: come studioso di queste cose sono stato molto colpito da un’indicazione contenuta nell’Enciclica di Giovanni XXIII “ Sollecitudo rei socialis”, nella quale il Papa ci parla chiaramente di strutture di peccato. Queste non sono la somma dei peccati individuali ma sono i meccanismi che nel loro funzionamento producono oppressione, fame e ingiustizia. Una cosa ci insegnano le strutture di peccato: non mi posso più accontentare di curare la vittima dei banditi sulla strada tra Gerusalemme e Gerico, ma devo lavorare in modo che i banditi non passino più per quella strada. Questo è il salto in più che noi dobbiamo fare: continuare a curare gli effetti perché è nostro dovere. Come diceva Sant’ Ireneo: “ La gloria di Dio è l’uomo vivo e non c’è gloria di Dio laddove c’è un bambino che non ha da mangiare”. Queste strutture di rivoluzionano la nozione classica di peccato. Qui è la struttura che nel suo funzionamento crea peccato, ingiustizia, dominio. Il ruolo dei cristiani è quindi curare gli effetti da un lato e dall’altro lavorare anche per rimuovere gli ostacoli che impediscono ai popoli di prendersi in mano. Quindi la cooperazione è anche un modo per far si che il regno di Dio oggi, non domani, possa già arrivare per quei bambini che muoiono di fame, per ciascuno di quei bambini che maneggiano il fucile”.
PADRE FULGENZIO: “ Stiamo seguendo molto attentamente Tony Blair che sta facendo un discorso molto serio, che sta parlando non di diminuzione ma addirittura di cancellazione del debito, proponendolo agli altri sette grandi Paesi del G8. In realtà si dovrebbe giungere a dire: “ Noi G200 a pari merito, insieme possiamo metterci a discutere, anziché noi G8 tralasciando il resto del mondo”. Ma finche il G8 parla di queste cose dimenticando i G ancora più grandi, ancora non ci siamo. Altrimenti diranno belle parole, si arriverà alla cancellazione del debito ma non si arriverà certo ad una fraternità.
A voi la visione del filmato di Giorgio Fornoni, girato anni fa, di una donna che muore di AIDS lasciando ancora un altro orfano”.